LA RAGAZZA MADRE E IL SUO BAMBINO

TRASFORMAZIONE SOCIALE DI UN FENOMENO DIFFICILMENTE DEFINIBILE

Per comprendere efficacemente cosa si intenda con il termine ragazza-madre, occorre innanzi tutto

considerare la complessità della definizione, sinonimo della problematicità del fenomeno in termini sociogiuridici.

Ad oggi, nonostante l’aumento del numero delle madri sole nubili, non si dispone di un vero e proprio

studio sociologico sistematico su questa figura, tanto dal punto di vista storico quanto socio-politico.

Pertanto, è necessario avvicinarsi a un tema così vasto e inesplorato attraverso un approccio critico e

neutrale, senza esimersi dal considerare le variazioni sociali che hanno comportato delle profonde

modificazioni nell’universo familiare, nonché concetti storicamente variabili come madre e moglie.

Solitamente l’opinione pubblica tende a vedere con sospetto verso questa figura, soprattutto all’interno di

una società a dominio maschile che risente fortemente della gerarchizzazione dei ruoli all’interno delle

questioni di genere.

Tutto ciò ha prodotto numerosi problemi e disagi per la madre nubile, soprattutto quando si tratta di madri

di giovanissima età; basti pensare alla mancanza di autonomia dovuta alla precaria introduzione nel

mercato del lavoro; oppure alla crisi di rapporti relazionali con la famiglia d’origine, e il conseguente

smantellamento dei legami parentali non fa che accrescere la loro emarginazione e isolamento sociale.

Troppo spesso si tende a considerare il vissuto della madre nubile come anomalo o anormale poiché

sembrerebbe contrapporsi a una norma, ossia la famiglia nucleare basata sulla bigenitorialità e sulla netta

distinzione di ruolo di madre-moglie e padre-marito, contribuendo ad associare alla madre non sposata

concetti quali peccato e di colpevolezza. E’ necessario mettere in luce come tali definizioni si rivelino oggi

del tutto sterili e infondati, incapaci di definire i reali legami parentali nelle nuove famiglie, oltre che

accrescere la stigmatizzazione della ragazza-madre e il suo isolamento.

Uno dei fenomeni che nella società attuale ha contribuito alla drammatizzazione della madre nubile è

quello definito con l’espressione inglese mother-blame, che consiste nell’incolpare la madre sola di tutti gli

aspetti di devianza e di disagio psico-sociale dei figli, come la criminalità adolescenziale, la

tossicodipendenza, i suicidi e lo scarso rendimento scolastico. Attualmente, non esiste alcuno studio

scientifico che metta in correlazione la solitudine del genitore con le possibili devianze dei figli. Tuttavia si

tende ancora a imputare alla madre nubile alcuni dei più allarmanti problemi che colpiscono la collettività,

considerando la mancanza dell’elemento paterno come handicap genitoriale tradotto nell’incapacità di

adempiere al ruolo materno, e considerando le esigenze del figlio in conflitto rispetto alle reali competenze

genitoriali della madre. In realtà, la maggior parte delle giovani madri sole ha dimostrato comportamenti

volti alla massima valorizzazione dell’infanzia, oltre alla consapevolezza della centralità del compito

educativo verso i figli.

Tornando alla definizione del soggetto sociale di ragazza-madre, oggi si utilizza sempre più spesso il termine

di single mothers per individuare in generale le madri sole. A ben vedere, la definizione stessa pone l’accento sulla solitudine relazionale di questa categoria femminile, includendo nel nome stesso una

connotazione negativa, e considerando l’assenza del partner come elemento di disgregazione familiare.

Questo tipo di inferenza, che risente ancora di un’impostazione legata a ruoli rigidi nella dimensione

parentale, avviene in modo assolutamente aprioristico e tende a generalizzare la questione in modo

superficiale, asserendo una presunta inadeguatezza della madre esclusivamente sulla base della sua

solitudine, senza quindi considerare il contesto socio-familiare e soprattutto le specifiche competenze

genitoriali del soggetto.

In realtà, occorre tenere presente che il termine mutuato dalla lingua inglese indica una tensione tra

morale familista tradizionale, universalmente condivisa e che porta alla formazione della cosiddetta

“famiglia naturale”, e comportamento individuale indipendente, che come tale comporta una trasgressione

e conduce alla creazione della cosiddetta “famiglia innaturale – per quanto non credo che vi possa essere

definizione meno indicata di innaturalità quando si parla di forme di convivenza familiare, qualunque sia la

modalità con cui si esplicano i rapporti parentali.

Tuttavia, se si esamina attentamente quella che per secoli è stata definita famiglia nucleare normale,

emerge la natura costruita della definizione stessa, in quanto frutto di variazioni storico-culturali.

Pertanto, la famiglia tradizionale rappresenta una possibilità di vita familiare, non certamente l’unica, e in

questo caso la sua essenza è definita dal binomio inscindibile di madre-moglie, all’interno di una

dimensione in cui essere moglie rappresenta l’unica condizione di possibilità di essere madre.

Per quanto concerne il tentativo di dare una definizione generale del fenomeno ragazza-madre, credo sia

innanzitutto necessario considerare entrambi i termini che contribuiscono alla formazione del nome.

“Ragazza” indica una madre di giovanissima età: solitamente si tratta di donne di età inferiore ai

venticinque anni, che non hanno ancora terminato gli studi accademici e che non possono dirsi attivamente

integrate nel mercato del lavoro.

“Madre” da sempre rappresenta un’identificazione di ruolo da parte della donna nella dimensione

domestica, che nel caso di ragazze assai giovani è anche un auto-riconoscimento all’interno della propria

maternità, riconoscimento che si accompagna ad una rifondazione dei rapporti parentali. Si tratta di una

stabilizzazione identitaria che per la prima volta non dipende dalla figura maschile.

In realtà, per quanto i termini sopra descritti si rivelano fondamentali per inquadrare questo soggetto

sociale, tuttavia essi non sono sufficienti per l’effettiva comprensione di questa figura: la molteplicità di

fattori che concorrono a definirla esprime l’intrinseca problematicità del concetto stesso. Resta indubbio

che il vissuto della ragazza-madre si profila come un’esperienza difficile e complessa, tanto nell’antichità

quanto nella società odierna. A mio avviso, il vero problema con cui la giovane madre deve fare i conti non

è l’accettazione della gravidanza e dunque della maternità (poiché trattasi il più delle volte di una maternità

cercata e non subita), quanto piuttosto il suo mancato riconoscimento come soggetto sociale di madre sola,

problema accresciuto dalla sua invisibilità all’interno delle politiche familiari.

Bisogna evitare di considerare erroneamente la ragazza-madre come un fenomeno post-moderno. Quella

della madre nubile è sicuramente una lunghissima storia, iniziata in tempi remoti e giunta fino ai nostri

giorni: è la storia di un lungo processo di liberazione ed emancipazione, tanto della donna nella società in

generale, quanto in particolare della madre all’interno della famiglia.

Nel corso di questa evoluzione, la figura sociale della ragazza-madre ha subito numerose trasformazioni,

passando da una iniziale accezione positiva, come nel caso delle concubine romane o delle cortigiane nelle

corti rinascimentali, a una connotazione fortemente negativa in quanto fonte di problemi sociali a causa di

inferenze religiose e politiche. Esaminando attentamente l’universo socio-politico che accompagna questa categoria, si noti come

l’immagine della ragazza madre rientri a pieno titolo nella riflessione che investe l’analisi delle

trasformazioni familiari. Definire cos’è una famiglia è impresa assai complessa, dal momento che nella

definizione concorre una varietà di fattori che hanno subito profonde mutazioni nel corso del tempo.

L’emergere di una molteplicità di modi di vivere ha contribuito alla variazione dei rapporti tra soggetti

familiari e ha dunque portato alla formazione di una pluralità di forme genitoriali che si distinguono dalla

cosiddetta famiglia tradizionale, basata sull’identificazione del ruolo madre-moglie. Ne risulta che fornire

una definizione esaustiva e assoluta di genitorialità non è impresa facile, non essendo concetto riducibile a

stereotipi o a categorie sociali prestabilite.

Oggi, la famiglia è un universo che necessita di una ridefinizione. La trasformazione delle forme di

convivenza familiare rappresenta uno dei cambiamenti più significativi del nostro tempo, tanto che

potrebbe essere definito come “mutazione antropologica”.

Con il crollo del modello tradizionale di famiglia, e il conseguente profilarsi di forme sempre più variegate di

convivenza, assistiamo a un lento processo di de-istituzionalizzazione del matrimonio: questo non

rappresenta più l’unico mezzo possibile affinché la donna possa essere madre; di conseguenza, la famiglia

nucleare borghese si delinea come una delle possibili forme di convivenza familiare, ma non certamente

l’unica né la migliore in termini di adeguatezza genitoriale.

La rifondazione del ruolo identitario di genitore, indipendentemente dal matrimonio, ha lasciato emergere

quesiti fondamentali, quali ad esempio cos’è una famiglia?, può esistere una famiglia a prescindere dal

matrimonio?, oppure ancora, nel caso specifico, una ragazza-madre e il suo bambino rappresentano una

famiglia? Per rispondere a questi interrogativi, che investono tanto la sfera sociale quanto quella giuridica,

è necessario adottare un punto di vista democratico e orizzontale, dove l’orizzontalità rappresenta una

sistematicità aperta e includente rispetto a quelle che sono le differenti forme di convivenza familiare.

Se è lecito affermare che una madre nubile e suo figlio possono essere considerati famiglia a tutti gli effetti,

allora queste forme di convivenza devono essere socialmente rappresentate e tutelate dalle politiche

familiari: la ragazza-madre perde la sua connotazione negativa come prodotto di fenomeni di disgregazione

sociale, e acquista una valenza positiva in quanto espressione della capacità di inventare una famiglia.

Ritengo che quest’ultimo aspetto non sia secondario nell’analisi sociologica del nucleo monoparentale,

poiché perseguire il proprio ideale di felicità all’interno della convivenza familiare rappresenta l’elemento

più importante che contraddistingue la famiglia contemporanea. Ponendo l’accento sull’intenzionalità della

madre che desidera e accoglie consapevolmente la maternità, si evidenzia la scissione tra desiderio del

singolo e interesse collettivo, scissione accompagnata da una progressiva democratizzazione della vita

privata. L’acquisizione di consapevolezza e di responsabilità del ruolo di genitore rende l’universo

monogenitoriale femminile una famiglia di scelta, dove la maternità si configura come fatto personale e

privato, scevro da ogni significato simbolico legato alla dimensione religiosa o politica. Anche la solitudine

non viene più colta come condizione necessaria a seguito di un abbandono da parte del partner: oggi un

numero sempre maggiore di ragazze-madri preferisce che il figlio non sia riconosciuto dal padre naturale,

evitando così che questi acquisisca dei diritti sul bambino che potrebbero complicare la situazione

giuridico-finanziaria della madre.

Tuttavia, nonostante le più svariate possibilità messe oggi a disposizione della ragazza-madre, molte giovani

donne decidono di ricorrere alla soluzione più estrema in caso di maternità non programmata: l’abbandono

del loro bambino! Reputo che il fenomeno dell’abbandono del figlio da parte della madre non sia marginale

nel contesto della presente riflessione, poiché investe tematiche assai complesse che contribuiscono a

modificare l’immagine sociale della madre sola. In primis, occorre considerare come il fenomeno sia

tutt’altro che recente, dal momento che nell’antichità l’abbandono era una pratica legalizzata e ampiamente praticata. Per i piccoli abbandonati, il destino non era per nulla felice: i più fortunati erano

adottati da famiglie facoltose che potevano prendersi cura di loro, altri venivano destinati alla schiavitù o

alla prostituzione, altri ancora erano vittime di storpiamento affinché potessero diventare fenomeni da

baraccone.

Nel XVIII e XIV secolo il fenomeno dell’abbandono aumentò vertiginosamente, a causa dell’aumento delle

nascite al di fuori del matrimonio che colpì principalmente le classi popolari. Inoltre, le drammatiche

condizioni economiche in cui versava gran parte della popolazione costrinsero moltissime giovani donne a

prendere la triste decisione di abbandonare il proprio bambino. Se aumentò l’abbandono dei figli illegittimi,

parallelamente si registrava un numero sempre più elevato di figli legittimi abbandonati, sintomo delle

condizioni economico-sociali assai precarie. In questi casi, scegliere di abbandonare il proprio bambino

rappresentava più che altro una scelta obbligata da parte della madre per tutelare il neonato.

Fino al XIX secolo, i bambini non desiderati venivano abbandonati nella Ruota degli esposti, una struttura

cilindrica in legno formata da due parti, una interna e una esterna, che permetteva di lasciare il neonato in

totale anonimato, avvisando tramite una campanella esterna la presenza del bambino. La prima ruota fu

costruita in Francia su volontà di Guido da Montpellier nel 1170. A causa del suo enorme successo,

accompagnato all’indignazione per i numerosi cadaverini di neonati trovati nelle reti dei pescatori nel

Tevere, Papa Innocenzo III nel 1198 fece costruire la medesima struttura a Roma, l’Ospedale di Santo

Spirito, munito di asilo e brefotrofio per il baliatico.

Nella seconda metà del 1800 sorgevano i primi interrogativi dell’opinione pubblica riguardo all’effettiva

utilità e sicurezza della ruota e dei brefotrofi annessi a questa struttura. L’elemento che diede origine a tali

perplessità fu l’elevata mortalità infantile durante l’esposizione e all’interno delle strutture che

accoglievano gli esposti. Verso la fine del XIX secolo infatti, il 30% dei neonati veniva abbandonato, e il

29,32% di essi moriva nei mesi immediatamente successivi al loro ricovero presso i brefotrofi. Le cause

della mortalità erano dovute soprattutto alle scarse condizioni igieniche, al dilagare delle malattie come la

sifilide, alla malnutrizione e al sovraffollamento delle strutture di accoglienza.

Alle numerose richieste di abolizione della ruota, i cui sostenitori insistevano sui rischi dell’esposizione e

sull’importanza della presenza materna per il bambino, non mancarono voci contrarie alla soppressione di

tale pratica, insistendo sulla priorità di salvaguardare l’onore e la rispettabilità della madre nubile, nonché

sulla necessità di sottrarre alla vista dei cittadini il raccapricciante spettacolo di bambini abbandonati in

luoghi pubblici, occultando il fenomeno stesso dalla coscienza collettiva.

La questione si risolse a favore dell’abolizione della ruota; una dopo l’altra, le ruote delle principali città

italiane furono soppresse.

Nonostante l’abolizione di strutture finalizzate ad accogliere i bambini abbandonati, oggi il fenomeno

dell’abbandono non è certamente concluso, e sembra anzi riemergere con drammatiche manifestazioni di

abbandono a rischio e di infanticidio, attraverso situazioni che richiedono una urgente rivalutazione delle

strutture di soccorso e di accoglienza. Negli ultimi anni sono infatti aumentati i casi di neonati ritrovati

all’interno dei cassonetti per l’immondizia, spesso non più in vita o comunque in condizioni critiche.

Le cause dell’abbandono possono dipendere dalla giovanissima età della madre, dalla gravidanza legata a

un atto di violenza sessuale, dall’abbandono che la neo-mamma subisce da parte del partner, dalla

condizione di povertà e dal timore di perdere la propria posizione lavorativa. Ad ogni modo, qualunque

possa essere il fattore scatenante, una madre che ricorre a un gesto tanto estremo denota il timore nei

confronti di un futuro assai incerto, oltre all’erronea convinzione di non avere possibilità alternative

all’abbandono. Pertanto è necessario procedere attraverso una diffusione massiccia di informazione,

dichiarando come lo stato garantisca tanto il parto in anonimato, quanto l’assistenza sanitaria attraverso il

ricovero ospedaliero di madre e bambino.

Alla ruota medioevale, oggi si è sostituita la culla salvavita, una versione moderna e tecnologicamente

avanzata della ruota antica, che, lungi dal voler rappresentare un ritorno alla drammaticità dell’esposizione,

dimostra la sua attuale utilità nel tentativo di trovare soluzioni in grado di tutelare la vita umana attraverso

l’individuazione di strumenti all’avanguardia per prevedere le situazioni di abbandono a rischio.

Un esempio è offerto dal Progetto Ninnaoh dell’Ospedale di Careggi a Firenze, nato nel 2008 e che prevede

l’installazione di una culla termica in un locale attiguo alla struttura ospedaliera, assicurando l’anonimato

della persona che vi depone il neonato e l’immediata assistenza medica per il bambino.

Vorrei trattare un ultimo aspetto che ritengo fondamentale nell’analisi di questa categoria sociale,

sottolineando come la drammatizzazione e quindi l’emarginazione di questo soggetto siano notevolmente

accresciute dall’assenza all’interno di politiche volte alla sua tutela giuridica. L’assenza di un welfare state

studiato ad hoc aumenta il rischio di povertà cui le madri sole vanno incontro, dal momento che, a causa

della loro esclusione dall’ambito lavorativo e di conseguenza dalla sempre più ampia richiesta di sussidi, la

ragazza-madre rappresenta la femminilizzazione della povertà, un problema che le strutture collettive

dovrebbero considerare. La mancanza di un inserimento attivo nel mercato del lavoro, gravata molte volte

dalla segregazione occupazionale imposta dal ruolo genitoriale, oltre ad essere tra le cause primarie della

mancata integrazione sociale, rientra in un più ampio discorso che investe tematiche complesse quali la

questione di genere e la discriminazione femminile. Per limitare l’emarginazione sociale di questa figura,

occorre pertanto procedere potenziando l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro e

incrementando i servizi per l’infanzia, riconoscendo il ruolo genitoriale per una corretta conciliazione della

doppia presenza femminile, nel lavoro esterno retribuito e nel lavoro di cura non retribuito.

In conformità a quanto detto sinora, per ciò che concerne la stigmatizzazione della ragazza-madre

all’interno delle attuali strutture sociali, vorrei concludere la mia riflessione evidenziando la necessità di

individuare delle politiche adeguate a favorire l’inserimento delle single mothers nel tessuto collettivo,

attraverso strategie giuridiche orientate a garantire loro uno standard minimo di assistenza.

Questo discorso vuole porsi in modo assolutamente critico nei confronti dello stato-fantasma, che, con il

suo mancato interesse verso questa categoria sociale, può a mio avviso essere considerato uno dei

principali responsabili dell’isolamento e discriminazione delle madri sole.

In uno studio volto ad inquadrare la pluralità delle forme genitoriali e di convivenza familiare, lo stato

contemporaneo deve identificare delle politiche che considerino le madri nubili come gruppo omogeneo,

nella propria identità. Ad oggi, non esiste ancora una politica familiare specificatamente rivolta alla madre

sola, dal momento che è la condizione di bisogno a far sì che lo stato intervenga attraverso i sussidi, e non il

riconoscimento di un effettivo diritto, come invece dovrebbe essere. Tutto ciò è quanto mai paradossale in

un frangente in cui le madri nubili in generale, e le ragazze-madri in particolare, risultano le più bisognose e

contemporaneamente le meno rappresentate.

La categoria delle madri sole, storicamente negata poiché tema imbarazzante agli occhi di uno stato

incapace di trascendere dalla morale familista, deve cessare di essere soggetto invisibile per acquisire una

definizione in termini socio-giuridici e quindi una maggior tutela da parte delle politiche familiari. Uno stato

che riflette su se stesso, e che si impegna a superare limiti e problematiche insite nel sistema, rappresenta

sicuramente un avanzamento verso l’acquisizione di politiche statali omnicomprensive e all’avanguardia,

evitando così la cristallizzazione di strutture basate su meccanismi ormai sterili e inappropriati a descrivere

la complessità del mondo contemporaneo.